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I NOMI A DOMINIO: LE PAROLE SONO IMPORTANTI!

Avv. Roberto Manno [1] 

La lettura dell’articolo di Alessio Canova pubblicato sul n.2/Ottobre 2017 del Notiziario del Consiglio dell’Ordine dei Consulenti in Proprietà Industriale offre l’occasione utile per chiarire in Italia i termini della legittimità delle numerose attività commerciali realizzate attraverso i nomi a dominio corrispondenti a termini generici o di uso comune.

Ad essi ci si riferisce in modi diversi: premium domain names; dictionary domains; keyword domain names. Come rileva attantamente Guido Maffei, “nel settore immobiliare i siti italiani leader sono www.casa.it e www.immobiliare.it; nel settore delle prenotazioni alberghiere è conosciutissimo www.booking.com ed in quello dei viaggi fai da te www.tripadvisor.com il che la dice lunga circa le preferenze dell’imprenditore che intende muoversi principalmente on-line”.

I “premium domain names” hanno quindi conosciuto una crescita esponenziale del loro valore di mercato, sul quale incidono numerosi fattori tra i quali anche il traffico qualificato che sono in grado di attirare e convogliare (“keyword enriched domain names”). Da questa premessa deriva un’importante, spesso trascurata, constatazione: nella stragrande maggioranza dei casi gli operatori del “domain name business” non hanno come obiettivo quello di prendere in ostaggio i marchi, ma di trarre profitto dall’intrinseca attrattività di una risorsa quale ad esempio termini generici o descrittivi.

Sul profilo LinkedIn di Rick Shwartz, uno dei più famosi “domain name trader”, si legge quanto segue:

“Investing in quality generic domains names with “Type in” traffic since 1995 for future development. Have done extensive testing on website traffic and traffic flow. More than 100,000 people a day type in my domain names looking for something specific. Notable sales: Porno.com $8,888,888.88; Property.com $4MM plus 5% equity; Candy.com $3MM plus royalty and 12.5% equity; eBet.com 1.35MM; Men.com $1.3MM; iReport.com to CNN.com $750,000; 236.com to IAC (Undisclosed); Punchbowl.com to MyPunchbowl.com Cash plus stock. Specialties: Domain Name traffic and website flow. Efficiency Expert. Problem Solver. Common Sense.”

È in effetti una questione di buon senso che tra questi domini e il marchio non vi sia alcun rapporto: come dimostra il crescente numero di domande di marchio rifiutate dall’EUIPO, i marchi non possono consistere esclusivamente in denominazioni o segni descrittivi, di uso comune o prive di capacità distintiva. Viceversa, chi ottiene la disponibilità del nome a dominio (sul mercato primario o molto più spesso in quello secondario), dispone di un assett di enorme valore.

Non possono certamente definirsi “nuove” le questioni relative alla qualificazione giuridica del domain name, che resta prima di tutto un indirizzo, una risorsa tecnologica del protocollo DNS (tant’è che si parla di “assegnazione” e non di “concessione” del dominio, soggetto a rinnovo annuale). Sono questioni dibattute anche nel nostro paese fin dal 2001, si veda ad esempio l’articolo seguente pubblicato sulla storica rivista “InterLex” con la quale ho avuto l’onore di collaborare: http://www.interlex.it/nomiadom/comunit2.htm.

È fondamentale avere le idee chiare, se si vuole evitare di perdersi nelle “wilderness of pain, where all the children are insain”.  E invece, non mancano tentativi più o meno consapevoli di ridurre questo fenomeno a mero “cybersquatting” o “domain name grabbing”. Il che desta forti perplessità se non addirittura imbarazzo, soprattutto per la qualità e il rigore giuridico delle decisioni con le quali altri e più aggiornati Colleghi cercano di alzare l’asticella del dibattito intorno al “legitimate domain trading”.

Nella decisione n.2/2017 “sundance/alana” resa dal PSRD MFSD, si affermano concetti assolutamente evidenti:

Per quanto concerne, invece, l’assunto che si tratti di termini di uso comune, l’Esperto ritiene le argomentazioni della Resistente almeno in parte maggiormente convincenti. Considerato che la Resistente è attiva nel settore della compravendita di nomi a dominio e considerato che Internet ha una portata globale, è ragionevole ritenere che l’appetibilità di un nome di dominio venga valutata non solo sulla base della lingua dell’assegnatario del nome a dominio, ma anche – ed in particolare – della lingua inglese. In quest’ottica, la locuzione “sun dance” che equivale all’italiano “danza del sole” ha certamente un grado di diffusione elevato ed è comprensibile che possa essere ritenuta appetibile da un soggetto che esercita l’attività di compravendita di nomi a dominio. Pertanto ed in assenza di ulteriori elementi che dimostrino che vi sia stato un chiaro intento di ledere il marchio SUNDANCE della Ricorrente, la messa in vendita del nome a dominio al migliore offerente ed il suo sfruttamento attraverso dei link “payper-click” non paiono rappresentare un tentativo di sviare la clientela della Ricorrente o di violarne i marchi. Tali attività appaiono piuttosto rientrare nel normale svolgimento dell’attività professionale della Resistente.

Cercando di riassumere i capi d’accusa formulati nei confronti del domain name trading, le UDRP ormai offrirebbero tutela solo nei casi di “smaccata malafede” contro i titolari di marchi forti o celebri, lasciando quindi senza tutela i titolari di marchi “normali”, lasciati soli e indifesi dinanzi alle organizzazioni di “domain grabber” dedite all’acquisizione “massiva” di migliaia e migliaia di nomi a dominio. Si invoca quindi una sorta di “presunzione generale di malafede” che possa finalmente consentire al titolare del marchio di affermare i propri diritti e interessi, certamente meritevoli di maggior tutela rispetto a chi si limiti ad acquisire o registrare i nomi a dominio senza mai utilizzarli.

Quasi certamente, in una UDRP questa tesi garantirebbe a chi la sostenesse una dichiarazione di Reverse Domain Name Hijacking[2].

Innanzitutto, la delimitazione delle UDRP ai “clear cut cases of cybersquatting” è una delle premesse fondamentali delle UDRP, scritte a quattro mani da ICANN e WIPO più di 18 anni fa:  la “smaccata malafede” è quindi prevista “by design” e ciò evidentemente in ottica garantista (non certo dei cybersquatters, ma della certezza del diritto). Recentemente la WIPO ha pubblicato la terza delle sue famose “Jurisprudential Overview”: si tratta di uno strumento pressochè sconosciuto in Italia (non in Europa)[3], che invece contribuirebbe enormemente alla qualità del dibattito nel nostro paese, aumentando la predictability e riducendo così il rischio – purtroppo concreto – di derive interpretative.[4]

Le Wipo JO 3.0 dedicano un’intera sezione al cd. “passive holding”, una questione affrontata dalle UDRP fin dal 2000 nel famoso caso Telstra.com WIPO D2000-0003. Questi gli step del “Telstra-test”:

(i) the degree of distinctiveness or reputation of the complainant’s mark,

(ii) the failure of the respondent to submit a response or to provide any evidence of actual or contemplated good-faith use,

(iii) the respondent’s concealing its identity or use of false contact details (noted to be in breach of its registration agreement), and

(iv) the implausibility of any good faith use to which the domain name may be put.

Sia il riferimento al “contemplated good-faith use” che alla sua “implausibility” chiaramente stanno ad indicare come sia sempre fatta salva la possibilità di uso legittimo del nome a dominio corrispondente al marchio: le Jurisprudential Overview fanno gli esempi di marchi celebri come “apple” o “orange”.

Le UDRP hanno ormai chiarito come il domain investment e il domain trading siano, di per sé, attività più che legittime. Parlare di “ribaltamento” delle UDRP e dei tradizionali indici di malafede è dunque errato. Il fatto che tali attività siano compiute da enti organizzati o strutturati in forma di impresa, e/o che queste aziende posseggano enormi portafogli di premium domain names non può modificare i termini della questione. Si veda, ad esempio, l’art. 8.4 della Policy del Dispute Resolution Service per il nome a dominio “.co.uk”, in cui è espressamente previsto come il “Trading in domain names for profit, and holding a large portfolio of domain names, are of themselves lawful activities. The Expert will review each case on its merits”.

Ancora, si pensi al caso dei domini a 3 o 4 lettere, veri e propri “graal” tra i premium domain names. Acquisirli non è affatto facile, e il loro valore è talmente elevato che spesso vengono utilizzati come “collateral[5] a garanzia di prestiti e altri strumenti finanziari.  Senz’altro potrà accadere, e spesso accade, che uno di tali domini possa corrispondere ad un marchio legittimamente utilizzato dal titolare nell’ambito di una determinata attività (es.: “psp.eu”); ma ciò non può automaticamente fondare una “presunzione assoluta di malafede” nel titolare del dominio, il quale invece potrà sempre poter dimostrare di averlo acquisito “senza avere in mente il marchio del ricorrente”, e ciò proprio in ragione del suo intrinseco valore.[6]

La regola è la buona fede:

nell’ordinamento italiano per la buona fede si richiede semplicemente che l’agente ignori di ledere un altrui diritto, anche se tale ignoranza sia conseguenza di un errore di fatto o di diritto, anche dipendente da colpa grave (cass. n.  8587/2004). Pertanto, la circostanza che il marchio della Ricorrente sia stato registrato prima del nome a dominio in contestazione, di per sé non è sufficiente a provare la malafede del Resistente, se al contempo non è provato che egli, al momento della registrazione del dominio, era conscio della previa registrazione di altrui marchio identico o confondibile con quello che andava a registrare. Tale prova avrebbe dovuto essere nel caso di specie rigorosa, atteso che il marchio in questione corrisponde a un nome di uso comune, e come tale sembrerebbe “prima facie” privo di capacità distintiva” (Decisione palato.it del 2014).

Nella procedura di riassegnazione “foodies.it”, il collegio unipersonale nominato dal PSRD Studio legale Tonucci ha quindi accettato “… le argomentazioni sviluppate dal resistente circa la legittimità dell’attività di registrazione e rivendita a terzi di parole di uso comune (o, comunque, di parole che possano avere – per qualsivoglia ragione – attrattiva nei confronti di terzi e, in ultima analisi, un appeal commerciale). Tale attività, infatti, non solo non è – in quanto tale – esclusa dal vigente Regolamento, ma ha, nel corso del tempo, trovato cittadinanza in molteplici decisioni emesse, all’esito di procedure di riassegnazione di nomi a dominio, tanto da autorità nazionali quanto da autorità internazionali (si vedano sul punto, a mero titolo di esempio, le decisioni della WIPO Arbitration and Mediation Center del 21 agosto 2003, relativa al nome a dominio croatiaairlines.com, del 14 aprile 2004, relativa al nome a dominio belupo.com, del 22 marzo 2017, relativa al nome a dominio bigotti.com, nonché del Centro Risoluzione Dispute Domini del 19 febbraio 2014, relativa al nome a dominio palato.it; parimenti, appare possibile citare anche le “WIPO Overview of WIPO Panel Views on Selected UDRP Questions, Third Edition (“WIPO Overview 3.0”)”, là dove, a pag. 27, è chiarito che: “Over the course of many UDRP cases, panels have acknowledged further grounds which, while not codified in the UDRP as such, would establish respondent rights or legitimate interests in a domain name. For example, generally speaking, panels have accepted that aggregating and holding domain names (usually for resale) consisting of acronyms, dictionary words, or common phrases can be bona fide and is not per se illegitimate under the UDRP”.

In conclusione, intorno ai domain names e alle relazioni tra essi e i segni distintivi tout court (incluse le denominazioni geografiche) è doverosa una riflessione seria e approfondita, aldilà di ogni preconcetto o pregiudizio, e sopratutto alla luce delle decisioni che anche in Italia i più attenti esperti hanno adottato, uniformandosi agli orientamenti e alle linee guida internazionali. È di fondamentale importanza assicurare la certezza del diritto e la cd. “predictability” del web, un mondo che non può essere considerato soltanto dal punto di vista dei “trademark owners” e in cui il domain name investment è ormai una realtà. 

____________________________

[1] Arbitro accreditato presso MFSD; CAC/ADR.EU per le procedure di riassegnazione .it e .eu; per le UDRP sui nomi a dominio generici (CAC/ADR.EU); domain name attorney in numerose procedure UDRP dinanzi alla WIPO e NAF; mandatario abilitato dinanzi a EUIPO.

[2]RDNH is defined under the Rules as using the UDRP in a bad faith to attempt to deprive a registered domain name holder of a domain name. Had Complainant considered prudently the elements of bad faith under the third element of the Policy, and done its homework regarding the Telstra case on which Complainant relied, Complainant should have been able to determine easily that the circumstances in this case differ fundamentally from those in Telstra, and there could be no finding of bad faith.” WIPO, Case No. D2016-0038 “simpledollar.com” 

[3] Per il “.eu” sono state scritte le “Overview of CAC Panel Views on Selected Questions of the Alternative Dispute Resolution for .EU Domain Name Disputes, 2nd Edition

[4] Nel 2016 si è tenuta la prima Domain Name Conference in Italia a Barletta: www.domainconference.it

[5] Articolo del 2008 By Warren E. Agin sul sito dell’American Bar Association.

[6] In “gssf.com”, l’arbitro del NAF ha affermato come “where there is a lack of evidence regarding notice, there can be no bad faith registration by a respondent”.

 

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